L’Ania e i dilemmi delle polizze contro le calamità

Descritta spesso come “influente” per la sua capacità di fare lobby condizionando il potere politico, l’associazione delle compagnie di assicurazione – l’Ania –  ha negli ultimi anni seguito la stessa sorte delle altre confederazioni imprenditoriali, a cominciare dalla Confindustria, che hanno perso potere e smalto. Qualcosa è cambiato: innanzitutto i governi – pressati forse dalla continua emergenza degli ultimi anni – hanno avuto meno tempo per parlare e anche per farsi condizionare dalle varie lobby. Oggi il potere politico- che pure ha i suoi piuttosto seri problemi di rappresentanza – si presenta paradossalmente meno permeabile alle istanze particolari e più concentrato su temi di rilevanza generale come le crescita dell’occupazione e del Pil.
L’Ania quindi non fa eccezione. Nonostante il cambiamento al vertice, con l’arrivo di Bianca Maria Farina, presidente di Poste Vita, finora non è avvenuto nulla. Sono passati quasi nove mesi da quando il nuovo presidente è arrivato e nonostante i suoi buoni proponimenti – lavorare insieme al governo per cambiare in meglio sia la previdenza integrativa che quella sanitaria oltre che la protezione dalle calamità – non sono stati fatti passi avanti su questi fronti.
Certamente lo spazio per crescere in questi settori, per le compagnie d’assicurazione, c’è. A cominciare dalla protezione contro le calamità, particolarmente evidente dopo l’ultimo catastrofico terremoto nel centro Italia. In particolare parliamo delle polizze contro terremoti e altri fenomeni naturali, che in un territorio sostanzialmente sismico come quello italiano e in un tempo attraversato da mutamenti climatici epocali, potrebbero avere una ragione. Rendere queste polizze obbligatorie potrebbe far abbassare i prezzi e rendere sopportabili le coperture anche in quelle aree dove le probabilità di eventi catastrofici sono più forti, scaricando l’onere a carico dello Stato in un onere a carico dei cittadini costretti ad assicurarsi. Una sorta di onere mutualizzato, insomma. Certo, la politica non ama in questo momento di crisi costringere gli italiani a pagare di più per una copertura assicurativa.
Ma tutto ciò potrebbe avere un senso se le tariffe, data la loro obbligatorietà, fossero di lievissima entità. Certo, una volta rese obbligatorie queste polizze, occorrerebbe uno stretto controllo da parte dell’Ivass, l’organo di vigilanza sulle compagnie, sulla congruità delle tariffe e sui loro aumenti. Il punto è che, in un regime di liberalizzazione delle tariffe, la vigilanza avviene soltanto a posteriori, e non è sempre facile per l’organo di controllo, l’Ivass, capire se qualcuno gioca sporco.
In definitiva, decidere o meno di rendere obbligatoria questa copertura si gioca su questo dilemma: è meglio che lo Stato faccia tutto da solo rimborsando chi ha subito una catastrofe o è meglio stornare questo onere sugli italiani, seppur in un regime mutualistico, visto che dovrebbero pagare tutti, anche quelli che, teoricamente, non ne avrebbero bisogno vivendo in aree dove una catastrofe (ad esempio un terremoto) è alquanto improbabile? Il dilemma è meno drammatico di quanto non si pensi perché, quando paga lo Stato, in effetti, lo fa con i soldi che gli italiani hanno versato con le tasse. Sempre gli italiani pagano, alla fine. L’unica differenza è che le imposte si pagano in maniera progressiva (l’Irpef lo è). Con le polizze l’effetto sarebbe lievemente regressivo, visto che le tariffe sono le stesse sia per i ricchi che per i poveri. Questi ultimi pagherebbero comunque meno, indirettamente, visto che si deve supporre che vivano in case meno costose.

 

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